Di Nick
Buxton, consulente della comunicazione
Pubblicato
su ctxt nella traduzione spagnola di Paloma Farré: https://ctxt.es/es/20181024/Politica/22482/cambio-climatico-militarismo-imperialismo-naomi-klein-petroleo.htm
Traduzione
italiana di Irene Starace
Attribuire
il cambiamento climatico al capitalismo non è esattamente il pensiero
dominante, ma non è neanche più un tabù. La scrittrice e attivista canadese
Naomi Klein ha contribuito a popolarizzarne le ragioni, ma ora quest’ idea sta avendo
eco in circoli più insoliti. Nell’ agosto del 2018, un gruppo di scienziati
finlandesi assunti dal segretario generale delle Nazioni Unite ha avvertito che
l’attuale sistema economico non può affrontare le molteplici crisi sociali ed
ecologiche che si stanno sviluppando. All’ inizio di quest’ anno, il vicepresidente
della maggiore impresa di gestione di fondi del mondo, BlackRock, ha ammesso che
di fronte al cambiamento climatico “dobbiamo cambiare il capitalismo. Questo è ciò
che è davvero in gioco”.
E’ senza dubbio
un progresso che sempre più persone mettano in rapporto il nostro sistema economico
con la distruzione ecologica. Si presta molta meno attenzione, tuttavia, ai legami
tra gli aspetti ambientali e il militarismo e la sicurezza. E’ un’ omissione
sorprendente, dato il potere detenuto dai militari e il modo spettacolare in cui
è aumentato negli ultimi decenni. Se teniamo in conto che il cambiamento climatico
aumenterà in modo radicale l’ instabilità e l’ insicurezza, analizzare il ruolo
dei militari in un mondo colpito dal cambiamento climatico diventa ancora più
rilevante.
Perché,
mentre i politici hanno dimostrato di essere incapaci di prendere le decisioni
necessarie a fermare l’ aggravarsi del cambiamento climatico, non hanno avuto
difficoltà a trovare finanziamenti per esigenze di “sicurezza”. Nel 2017, la spesa
militare mondiale è salita a 1,74 bilioni di dollari (1,53 bilioni di euro),
equivalente a 230 dollari per ogni abitante della Terra e quasi il doppio di quel
che si è investito dalla fine della Guerra Fredda. Gli avvenimenti dell’ 11 settembre
in particolare hanno alimentato una guerra universale contro il “terrore” e un’
ondata di spese militari praticamente illimitata. E, man mano che i governi aumentavano
la spesa, a loro volta rinforzavano il potere e l’ influenza delle imprese
militari (come Lockheed Martin negli Stati Uniti e Indra in Spagna), che ora aiutano
a progettare e redigere politiche in materia di sicurezza in tutto il mondo, il
che frutta loro benefici ancora maggiori.
Naomi
Klein ha attratto l’ attenzione sul “caso epico del momento storico inopportuno”
della rivoluzione neoliberista mondiale, che ha raggiunto una posizione
dominante proprio quando avevamo bisogno di una regolamentazione delle imprese e
di una transizione pianificata verso economie con emissioni basse di carbonio. Io
direi che un caso ugualmente importante di momento inopportuno è stata la crescita
smisurata del complesso militare-difensivo-industriale proprio quando le ripercussioni
del cambiamento climatico sono diventate sempre più evidenti. Questo porterà quasi
sicuramente al fatto che, in risposta al cambiamento climatico, i militari acquisiranno
un ruolo ancora più significativo –con conseguenze per tutti noi–.
Il pugno nascosto
Per
comprendere il potere dei militari oggigiorno, è importante andare oltre i budget
in costante aumento e le guerre infinite (come quella in Afghanistan, che dura
ormai da 17 anni) per vedere il consenso creato sull’idea che, per mantenerci al
sicuro, abbiamo bisogno di sempre più “sicurezza” da tutte le parti. Oggigiorno,
le grandi imprese del settore armamentistico non vendono solo armi, ma diverse
soluzioni in materia di “sicurezza”, da videocamere di sorveglianza in quartieri
urbani a database biometrici per la memorizzazione delle impronte digitali, e perfino
sistemi di radar ad alta tecnologia a frontiere sempre più militarizzate. Questo
mercato è cresciuto smisuratamente: un calcolo modesto suggerisce che nel 2022
l’ industria della sicurezza nazionale mondiale varrà 418.000 milioni di dollari.
Alcuni dei nuovi giganti della sicurezza partecipano in maniera
perversa sia alla creazione dell’ insicurezza che alla fornitura di soluzioni.
Un rapporto elaborato dal Transnational Institute nel 2016 mostrava che tre dei
fabbricanti di armi europei più importanti che vendono al Nordafrica e al Medio
Oriente – Finmeccanica, Thales ed Airbus–
sono anche alcuni dei principali aggiudicatari dei contratti per
militarizzare le frontiere della UE. In altre parole, si beneficiano doppiamente
–prima alimentando le guerre che generano rifugiati, e poi fornendo la tecnologia
e le infrastrutture che impediscono ai rifugiati di trovare un luogo sicuro–.
Pertanto, è artificiale definire il militarismo qualcosa in
rapporto solamente con le guerre all’ estero, giacché riguarda anche le risposte
sempre più militarizzate in ambito nazionale – quelle rivolte all’inizio alle
comunità emarginate (musulmani, immigrati), poi agli attivisti, poi ai lavoratori
che prestano assistenza umanitaria e, alla fine, a tutti –. Questa militarizzazione
(e la corrispondente criminalizzazione) avanza ogni giorno in tutto il mondo. Nel
Regno Unito, per esempio, un programma di vigilanza su vasta scala ha segnalato,
nel 2015, 4.000 persone come potenziali estremisti. Di queste, più di un terzo erano bambini. Negli
USA, i manifestanti, sia di Black Lives
Matter che di Standing Rock, hanno dovuto affrontare veicoli blindati a prova
di mine, così come droni. In Honduras, più di 120 persone sono state assassinate,
tra il 2010 e il 2016, per mano di gruppi
paramilitari, per essersi opposte allo sfruttamento del legno, delle miniere e
delle dighe.
L’ influente avvocato neoliberista e opinionista statunitense
Thomas Friedman ha spiegato le ragioni di questa risposta militarizzata–e in un
modo parecchio più onesto di quel che ci si sarebbe aspettati–: “La mano
invisibile del mercato non può funzionare senza un pugno nascosto. McDonald's
non può prosperare senza McDonnell Douglas, il disegnatore dell’ F-15. E il pugno
nascosto che mantiene il mondo al sicuro perché le tecnologie della Silicon
Valley prosperino si chiama esercito, forze aeree, marina militare e marines degli
USA.”. Detto in altro modo, il capitalismo e il militarismo (in particolare l’
imperialismo degli USA) non sono due forze parallele, ma inestricabilmente intrecciate.
Quel che Friedman non segnala, tuttavia, è che il pugno nascosto
non sta solo lì fuori, nel “mondo”, ma anche in casa.
La
connessione tra l’esercito e il petrolio
Gli stretti vincoli tra il capitalismo e il militarismo si possono
osservare nel funzionamento stesso dell’esercito degli USA. Oggigiorno, spiegare
la maggioranza degli effettivi militari richiede ingenti emissioni di gas ad effetto
serra, il che significa che il Pentagono è il principale organismo consumatore
di petrolio. Soltanto uno dei suoi aerei, il B-52 Stratocruiser, consuma approssimativamente
12.620 litri all’ora, più o meno la stessa quantità di combustibile che usa il guidatore
di una macchina media in sette anni. Nonostante l’ enorme “impronta” di carbonio
che lascia, nei paesi industrializzati il contributo del settore militare non è
neanche valutato adeguatamente, ed è esentato dall’ Accordo di Parigi stipulato
dalle Nazioni Unite. Naturalmente, se le sue emissioni fossero calcolate debitamente,
saremmo ancora più lontani dall’ obiettivo di mantenere l’aumento della
temperatura globale al di sotto di due gradi centigradi.
Il ruolo che svolgono le forze armate è ancora più
significativo se si tengono in conto gli obiettivi per i quali sono mobilitate
–in particolare, la vasta infrastruttura militare degli USA, formata da più di
800 basi con le loro flotte navali ed aeree–. E’ chiaro che si spiegano
principalmente in regioni ricche di petrolio e risorse, e vicino a vie strategiche
di trasporto marittimo che mantengono in funzione la nostra economia globalizzata.
E quest’ approccio non lo mettono in pratica solo gli USA. Il gruppo di ricerca
Oil Change International calcola che fino
alla metà di tutte le guerre tra stati che ci sono state dal 1973 sono state
causate dal petrolio.
Anche la violenza poliziesca contro le popolazioni spesso è
legata alla protezione per affrontare la resistenza che si produce di fronte a
progetti di combustibili fossili, industrie ed infrastrutture. Constatiamo
ripetutamente che gli attivisti ambientalisti affrontano la violenza quando sfidano
le industrie estrattive. L’ organizzazione per i diritti umani Global Witness ha osservato nel 2015 che
ogni settimana sono assassinate tre persone perché difendono le loro terre, boschi
e fiumi nella loro lotta contro le industrie estrattive.
Una confluenza catastrofica
Il pugno nascosto del capitalismo non è un fenomeno nuovo –il
potere economico ha sempre impiegato la violenza per proteggersi–, ma è anche
vero che negli ultimi decenni ha accelerato. Dopo l’ 11 settembre, senza dubbio
c’è stato un impulso che ha legittimato un aumento smisurato delle spese
militari e della violenza statale. Tuttavia, è anche probabile che una crisi
ecologica più generalizzata abbia ravvivato la risposta militare.
Lo studio del Centro di Resilienza di Stoccolma mostra che dipendiamo
da nove processi ecologici fondamentali che regolano la stabilità e la resilienza
della terra. L’umanità ha già superato i limiti relativi alla perdita della
diversità biologica e ai cambiamenti nei cicli dei nutrienti (nitrogeno e fosforo),
e si trova in una situazione pericolosa per quel che riguarda il cambiamento
climatico e l’ uso della terra.
Confermato da una “corsa al ribasso” delle imprese -in cui le
multinazionali cercano costantemente di eliminare norme e costi che limitino i
benefici–, punta il dito in particolare contro le industrie estrattive, che si
scontrano con i nostri limiti ecologici e si stabiliscono negli ultimi
territori non ancora sfruttati. La gente si vede obbligata a resistere, non
solo per evitare l’inquinamento o la corruzione, ma per poter sopravvivere. La
loro ferma resistenza ha urtato contro una dura repressione.
La
“dichiarazione di guerra” del Canada contro le sue nazioni originarie
Fatti recenti avvenuti in Canada ci mostrano questa realtà da
vicino. Nel 2013, l’ impresa energetica Kinder Morgan ha annunciato che avrebbe
costruito un oleodotto da Alberta alla Columbia Britannica, direttamente attraverso
una zona sensibile dal punto di vista ambientale e attraverso i territori di più
di 100 “Nazioni Originarie”. L’ annuncio ha provocato un’ enorme opposizione, al
punto che alla fine l’ impresa ha annunciato che abbandonava il progetto, a
causa di “rischi legali”. Tuttavia, invece di ritirarsi da un progetto petrolifero
tossico, lo stato ha raddoppiato la scommessa e, in pratica, ha finito per nazionalizzare
l’ oleodotto.
Un caso giudiziario dell’ agosto del 2018 ha emesso una
sentenza a favore dei manifestanti, puntando il dito contro la mancanza delle
consultazioni costituzionali con le Nazioni Originarie e di un’ analisi
ambientale sull’ aumento del traffico di petroliere nel mare di Salish. E’ un guadagno
di tempo importante, ma è chiaro che è poco probabile che lo stato canadese,
dominato dagli interessi petroliferi, faccia marcia indietro, e, alla fine, userà
la forza per imporre il progetto. Così come si è fatto in innumerevoli progetti
di estrazione di combustibili fossili in tutto il mondo.
E quelli che hanno affrontato la violenza credono di non
avere alternative alla resistenza. Come ha osservato Kanahus Manuel, di
Secwepemc Nation, in Canada: “Tutto emana dalla terra. Se si distrugge la terra, distruggiamo noi stessi”. E’
comprensibile, pertanto, che insieme ad una coalizione di organizzatori indigeni,
abbia definito le azioni del governo canadese “una dichiarazione di guerra”. Kanahus prosegue: “Lo crediamo letteralmente.
Chiameranno i militari. E’ la regola nazionale impiegare la
criminalizzazione, l’azione civile e altre sanzioni per reprimere la resistenza
indigena a queste politiche, applicando il peso della legge e l’ uso delle forze
di polizia contro gli individui e le comunità indigene”.
Un adattamento militarizzato
Man mano che gli effetti del cambiamento climatico si aggravano,
è probabile che aumenti questa tendenza a una risposta militarizzata. Può darsi
che Trump non creda al cambiamento climatico, ma il suo esercito sì, e sta già facendo
piani per affrontarne le conseguenze. Quest’anno, la velocità dello scioglimento
dei ghiacci nell’ Artico ha portato la marina degli USA ad annunciare che sta rivedendo
la sua strategia nella regione, con un probabile aumento di navi armate e truppe.
Nel maggio del 2018, l’ Australia si è unita all’ Unione Europea e agli USA per
dichiarare il cambiamento climatico una minaccia alla “sicurezza” e avvertire
dei pericoli “della migrazione, dell’ instabilità interna o dei movimenti di
insorti negli stati… del terrorismo o dei conflitti transfrontalieri”, che avranno
bisogno di “una grande varietà di risposte in materia di Difesa”.
Quando gli eserciti e le forze di sicurezza sono le istituzioni
più forti e meglio finanziate della nostra società, non possiamo sorprenderci che
diventino le istituzioni predeterminate per affrontare gli effetti del cambiamento
climatico.
Le risposte maggioritarie degli stati degli USA e della UE ai
rifugiati sono tra i presagi più perturbanti di quel che potrebbe somigliare ad
un adattamento climatico militarizzato. La risposta predeterminata delle nazioni
ricche industrializzate ai rifugiati non è stata mostrare solidarietà o compassione,
ma, sempre più spesso, fare tutto il possibile per mantenere i rifugiati fuori
- che sia militarizzando le frontiere, appoggiando dittatori, mantenendo i rifugiati
in campi di concentramento o costringendo la gente a fare viaggi così pericolosi
che migliaia di persone muoiono nel tentativo. E’ un’ abominevole dimostrazione
di crudeltà che, tuttavia, sta diventando la triste norma. Quando sappiamo che gli
effetti del cambiamento climatico saranno solo un fattore aggiunto alla pressione
per emigrare, le previsioni per il futuro sono funeste.
La verità è che abbiamo normalizzato la violenza degli stati.
Non vediamo più le telecamere di sorveglianza nelle nostre strade, le palizzate
di filo spinato alle nostre frontiere, i blindaggi della polizia, i rifugiati nei
campi, perché non sono più niente di insolito. Questa normalizzazione significa
che c’è un pericolo crescente che le soluzioni di difesa di fronte al cambiamento
climatico non siano solo questa risposta predeterminata, ma che, per di più, siano
praticamente impercettibili.
Rompere
con i parametri di riferimento
Disfare questo consenso alla sicurezza invece che alla
solidarietà non sarà un compito facile. Uno strumento che potrebbe aiutare è il
concetto di “cambiare i parametri di riferimento,” dato che può aiutarci a capire
questo processo e darci qualche suggerimento su come dovremmo cominciare a forgiare
un’ altra via. L’ ecologista Daniel Pauly ha inventato questo termine per riferirsi
al modo in cui gli scienziati specializzati nella pesca avrebbero stabilito le
loro “norme” per mantenere in buono stato le zone in cui si calano le reti, tenendo
conto dello stato di esaurimento in cui li avevano trovati, invece che lo stato
intatto in cui si trovavano originariamente. La maggioranza degli scienziati non
ricordava più i mari ricolmi di grandi pesci, perché avevano accettato il mare
devastato come la norma.
Tuttavia, nel mondo della pesca, si è data risposta a questo
stabilendo riserve marine. Se si fa debitamente e si proteggono le riserve dalle
imbarcazioni che praticano la pesca a strascico (invece che dai pescatori su piccola
scala), il risultato può essere un recupero spettacolare della fauna e degli habitat
marini. E, quel che più conta, si portano alla luce i pericoli dello sfruttamento
eccessivo dei mari e la possibilità di adottare un approccio diverso.
Abbiamo bisogno di un approccio simile sulla sicurezza –attraverso
la creazione di esempi di approcci alternativi alla militarizzazione in ambito
locale e statale–. Abbiamo bisogno di dimostrare che, militarizzando la nostra
risposta alle questioni sociali ed ecologiche, come il cambiamento climatico, si
aggraverà solo l’ impatto sui più vulnerabili. Ma abbiamo bisogno anche di mettere
in discussione e mobilitarci contro questa militarizzazione della società in qualsiasi
sua forma, e di dimostrare la possibilità di adottare un approccio diverso. Questo
si può fare in molti modi, da semplici piani di adattamento climatico che diano
la priorità alla solidarietà invece che alla sicurezza –come quelli a cui ha dato
impulso il movimento delle Comunità in Transizione– alla rete di città che offrono
asilo ai rifugiati – e ai manifestanti di Black
Lives Matter che pretendono che la polizia renda conto negli USA–. Tutti questi
sforzi possono cominciare a rallentare l’inarrestabile avanzata del nostro pianeta
verso la militarizzazione. I difensori del clima hanno cominciato a frenare il
meccanismo dei combustibili fossili, e ciò di cui abbiamo bisogno ora è cominciare
a insabbiare gli ingranaggi del complesso militar-industrial-difensivo.